Genetica e Biologia molecolare

Il laboratorio di analisi BIOMEDICAL è in grado di effettuare esami inerenti alla genetica e alla biologia molecolare. Queste branche studiano e interpretano a livello molecolare i fenomeni biologici, considerando la struttura, le proprietà e le reazioni delle molecole chimiche di cui gli organismi viventi sono costituiti. Esse indagano anche sul patrimonio cromosomico degli individui al fine di identificare la presenza di eventuali anomalie che sono alla base di condizioni patologiche specifiche o di riduzione della fertilità. Le moderne conoscenze scientifiche permettono di poter applicare le tecniche di biologia molecolare per fare medicina preventiva.  

Lista completa degli esami

Di seguito è reso disponibile l’elenco completo degli esami di Genetica e Biologia Molecolare che è possibile richiedere presso il Laboratorio BIOMEDICAL. Per aprire l’allegato o scaricare il file, è necessario premere il pulsante di download PDF.

PrenatalSafe: proteggi il tuo bambino

PrenatalSafe è un esame prenatale non invasivo che, analizzando il DNA fetale libero circolante isolato da un campione di sangue materno, valuta la presenza di aneuploidie fetali comuni in gravidanza, quali quelle relative al cromosoma 21 (Sindrome di Down), al cromosoma 18 (Sindrome di Edwards), al cromosoma 13 (Sindrome di Patau) e cromosomi sessuali (X e Y), quali per esempio la Sindrome di Turner o Monosomia del cromosoma X.

Sintomi, diagnosi e terapia dei test

Di seguito sono elencate le maggiori prestazioni di Genetica e Biologia Molecolare che è possibile richiedere presso il Laboratorio BIOMEDICAL. Una descrizione completa per ogni esame è messa a disposizione dei Pazienti per fornire loro le informazioni necessarie sulla patologia, i sintomi, la preparazione al Test e cenni su come interpretare i risultati dei referti. Per leggere le informazioni relative all’esame a cui si è interessati, bisogna cliccare sul nome dell’esame prescelto.

ALTERAZIONI NUMERICHE O STRUTTURALI DEI CROMOSOMI

Così come indicato dalla Società Italiana di Genetica Umana, l’indagine citogenetica prenatale è consigliata nelle gravidanze nelle quali vi sia un aumentato rischio di anomalie cromosomiche del feto, rispetto alla popolazione generale. In particolare, i dati epidemiologici ampiamente consolidati raccomandano le seguenti indicazioni:

  • età materna uguale o maggiore ai 35 anni  alla nascita;
  • precedente figlio affetto da una anomalia cromosomica;
  • genitori portatori di anomalie cromosomiche strutturali bilanciate;
  • genitore con mosaicismo cromosomico;
  • anomalie fetali e segni ecografici predittivi evidenziati ecograficamente;
  • indagini biochimiche sul siero materno suggestive di un aumento del rischio di patologia cromosomica del feto;
  • rischio di malattie mendeliane da instabilità cromosomica;
  • altre condizioni, da valutare in sede di consulenza genetica.

Come si esegue l’esame?

Mediante prelievo transaddominale può essere eseguita una villocentesi durante il primo trimestre di gravidanza (9-12 settimane) oppure un’amniocentesi durante il secondo trimestre (15-18 settimane). Per la villocentesi si prelevano cellule della placenta (villi coriali) che hanno la stessa origine (e quindi lo stesso patrimonio genetico) di quelle fetali, mentre per l’amniocentesi si studiano cellule fetali che si trovano nel liquido amniotico (amniociti).

Lo studio del cariotipo si esegue su sangue venoso periferico (ottenuto con un classico prelievo di sangue) in pazienti con:

  • sospetta sindrome cromosomica;
  • genitori e familiari di soggetti con anomalie cromosomiche;
  • genitori di soggetti malformati o con sospetta sindrome cromosomica deceduti senza diagnosi;
  • qualora si riscontri ritardo mentale e/o difetti congeniti;
  • ritardo dell’accrescimento;
  • sui neonati nati morti;
  • coppie con aborti spontanei ripetuti;
  • infertilità maschile;
  • femmine con amenorrea primaria o secondaria (assenza o interruzione del ciclo mestruale).

Circa il 15-20% di tutte le gravidanze riconosciute esita in un aborto spontaneo e più del 50% ha un alterato numero e/o struttura dei cromosomi che è causa dell’interruzione della gravidanza. Lo studio citogenetico dei tessuti abortivi è quindi di fondamentale importanza per comprendere la causa dell’interruzione della gravidanza, e di supporto alla coppia (in quanto nella maggior parte dei casi l’errore cromosomico è puramente casuale e non comporta un rischio aumentato che l’evento si ripeta).

FIBROSI CISTICA

La fibrosi cistica (FC) è una grave malattia ereditaria, cronica, evolutiva; un bambino ogni 2700 nasce con questa malattia. Nei pazienti affetti da FC le secrezioni delle ghiandole esocrine (cioè i liquidi biologici come il muco, il sudore, la saliva lo sperma, i succhi gastrici) sono molto più dense e viscose del normale. I problemi più gravi sono a carico dei polmoni, dove il muco estremamente denso può causare problemi respiratori e infezioni. Anche i succhi pancreatici sono più densi del normale, causando problemi digestivi. Infine, i pazienti affetti da FC sono scarsamente fertili, a causa dell’eccessiva densità del loro liquido spermatico e delle secrezioni vaginali. La malattia si manifesta per lo più entro i primi anni di vita, talora più tardivamente, e può esprimersi con maggiore o minore gravità in individui diversi. Pertanto viene trattata con terapie che variano da soggetto a soggetto, costituite per lo più da fisioterapia, antibiotici, aerosol-terapia, estratti pancreatici e vitamine. Il decorso e la prognosi della fibrosi cistica sono notevolmente migliorati negli ultimi decenni, soprattutto per i pazienti diagnosticati precocemente. Nonostante ciò, allo stato attuale la guarigione non è possibile e la durata media della vita è comunque ancora ridotta rispetto a quella della popolazione generale.

Come si trasmette la Fibrosi Cistica?
La FC è una malattia che si trasmette con modalità autosomica recessiva, determinata da alterazioni del DNA, chiamate “mutazioni”, che insorgono in entrambe le copie del gene CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Regulator). I geni vengono ereditati in coppie, derivando uno dal padre ed uno dalla madre. Negli individui malati entrambe le copie del gene per la FC sono alterate. Gli individui che possiedono una sola copia del gene alterato e una normale sono invece privi di ogni sintomo, ma sono portatori sani. I bambini malati di FC potranno nascere solo se entrambi i genitori sono almeno portatori sani. Due genitori portatori sani avranno una probabilità del 25 % di avere figli affetti da FC. Dalla stessa unione i figli avranno una probabilità su due (50%) di nascere portatori sani, come i genitori.

Come si esegue l’analisi genetica per la Fibrosi Cistica?
L’unico modo per identificare i portatori sani è quello di effettuare un test sul DNA alla ricerca di mutazioni nel gene della FC. L’analisi però è complicata dal fatto che esistono numerosissime mutazioni (ad oggi oltre 900) che causano la FC; molte di esse sono rare, molte altre ancora sconosciute. Generalmente, il test genetico viene eseguito tenendo conto di 31-200 mutazioni (a secondo del tipo di analisi effettuata), scelte fra le più frequenti nell’area geografica in questione e che nel complesso permette di identificare circa 90 per cento dei portatori. Il test genetico non è in grado di identificarle tutte. In casi particolari, adeguatamente valutati dal genetista, può essere eseguito anche un test genetico che prevede l’analisi di mutazione dell’intero gene, con conseguente ricerca di tutte le mutazioni sinora scoperte. Il gene responsabile della malattia è stato identificato e localizzato sul cromosoma 7. Il gene codifica per una proteina chiamata CFTR (Cystic fibrosis transmembrane regulator). La proteina CFTR ha un ruolo importante nel regolare la quantità di cloro che viene secreto insieme ai liquidi biologici. Nei pazienti affetti da FC il gene della CFTR è alterato, in genere a causa di mutazioni puntiformi. Queste alterazioni fanno sì che la proteina non venga più prodotta, o che venga prodotta ma in una forma non funzionale. A causa del deficit della proteina, le secrezioni contengono una scarsa quantità di acqua di sali, che ne modifica drasticamente le proprietà.

Che risultati può dare l’analisi genetica per la Fibrosi Cistica?
A seguito dell’analisi genetica per Fibrosi Cistica si possono ottenere due tipi di risultati:

  • l’ analisi può individuare nel DNA del paziente la presenza di una mutazione a livello di una copia del gene CFTR, mentre l’altra copia è normale. Si dice che il soggetto risulta portatore in eterozigosi di quella mutazione, e questo risultato significa che il paziente è un PORTATORE SANO.
  • l’analisi può individuare nel DNA del paziente la presenza di mutazioni in entrambe le copie del gene CFTR. Si dice che il soggetto risulta eterozigote composto (due mutazioni diverse) o omozigote (due mutazioni uguali) di quella/e mutazione/i; questo risultato significa che il paziente è un AFFETTO da Fibrosi Cistica.
  • l’analisi genetica non individua nel DNA del paziente la presenza di mutazioni del gene CFTR. Si dice che il soggetto risulta “NEGATIVO“. Questo risultato significa che il soggetto ha una probabilità diminuita, rispetto a prima dell’analisi, di essere un portatore.

Non è possibile che l’analisi escluda in assoluto la probabilità di essere un portatore, perchè non è possibile escludere la presenza di tutte le numerosissime mutazioni del gene della fibrosi cistica.
E’ importante ricordare che:

  • la probabilità di essere un portatore di fibrosi cistica è maggiore per un soggetto che sia parente di un malato o di un portatore.
    In questo caso è necessario prima identificare la mutazione del malato o del portatore presente in famiglia (mutazione “familiare”) e poi ricercarla nel parente. Se il parente risulta non avere nel suo DNA la mutazione familiare, la sua probabilità di essere portatore diventa estremamente bassa.
  • la probabilità di essere portatore di fibrosi cistica è minore ma comunque presente anche nel soggetto che non è parente di un malato o di un portatore. In questo caso, per chi si sottopone alla ricerca delle più frequenti mutazioni del gene della fibrosi cistica e non risulta avere nel suo DNA nessuna di queste, la probabilità di essere portatore diventa bassa (anche se non zero).

X FRAGILE

La sindrome dell’X fragile, o sindrome di Martin-Bell, è una malattia genetica causata dalla mutazione del gene FMR1 sul cromosoma X. Questa sindrome è la causa più frequente del ritardo mentale ereditario. Si accompagna normalmente a un lieve dimorfismo, disturbi del comportamento e macrorchidismo nei maschi. L’incidenza della patologia è di circa 1 su 1250 soggetti di sesso maschile, 1 su 2500 di sesso femminile. Le donne portatrici sane di sindrome dell’X fragile sono circa 1 su 259.

Quali sono le cause della sindrome?
L’X fragile è causata da una mutazione dinamica che interessa l’espansione progressiva di un tratto di DNA che determina l’assenza della proteina FMRP. Normalmente il numero di triplette CGG contenute nel tratto di DNA è compreso tra le 6 e le 50 copie; un’espansione tra 50 e 200 copie definisce un soggetto portatore sano di X-fragile. La trasmissione può avvenire in maniera asintomatica oppure può innescare un’ulteriore espansione fino a raggiungere la mutazione completa, che associandosi a una metilazione del promotore del gene determina l’assenza della proteina FMRP. Si tratta di una proteina in grado di instaurare legami con l’RNA, situata soprattutto nei testicoli e nel cervello, i tessuti più colpiti dalla sindrome.

Quali sono i sintomi?
La patologia non compare alla nascita, si manifesta progressivamente, dai primi mesi di vita alla pubertà. I soggetti affetti da X fragile presentano un volto allungato, padiglioni auricolari a impianto basso, ampi e anteversi. La mascella generalmente è sporgente (prognatismo), sono presenti palato ogivale, mal occlusione dentale e in alcuni soggetti strabismo oculare. Può essere presente macrocefalia (assoluta o relativa), ipotonia, iperlassità articolare, cifoscoliosi, piattismo plantare, prolasso della valvola mitrale. Il macrorchidismo (aumento di volume dei testicoli) si presenta generalmente in fase post-puberale. L’entità della disabilità intellettiva è variabile, spesso i soggetti affetti da questa sindrome soffrono di iperattività, deficit di attenzione, instabilità emotiva, comportamento di tipo autistico.

La diagnosi
Essendo un fenotipo lieve, la diagnosi clinica della sindrome dell’X fragile è difficile, specie nei bambini. Spesso si arriva alla diagnosi indagando su tutti i casi di ritardo mentale che non presentano una causa evidente.
La diagnosi prenatale può essere eseguita tramite il metodo Southern blot sui villi coriali o sul liquido amniotico, oppure test basati sulla reazione a catena della polimerasi.
Le famiglie all’interno delle quali sia presente un soggetto affetto dalla sindrome possono avvalersi di una consulenza genetica che possa informarle sul rischio di incidenza della malattia.

La Terapia
Non esiste una cura per la sindrome dell’X fragile. La terapia di supporto attuata con i soggetti che ne sono affetti è basata sull’integrazione di psicomotricità. Logopedia, terapia occupazionale.

Alcune curiosità
Il nome della sindrome “X fragile” deriva dall’osservazione del tratto terminale del cromosoma X in presenza della mutazione completa. Il cromosoma infatti sembra quasi rotto.

EMOCROMATOSI GENE HFE

L’emocromatosi genetica è una malattia ereditaria caratterizzata da un eccessivo accumulo di ferro nell’organismo. Quest’ultimo si sviluppa nel corso degli anni e in genere si manifesta clinicamente nella quarta-quinta decade di età. In assenza di cause note di sovraccarico di ferro – quali trasfusioni ripetute (emocromatosi secondaria tipica delle anemie trasfusioni-dipendenti) o assunzione protratta di ferro a scopo terapeutico – basta riscontrare un aumento della ferritina plasmatica e della percentuale di saturazione della transferrina, per sospettare la malattia.

Si tratta di una malattia ereditaria?
Per quanto riguarda l’ereditarietà, l’emocromatosi si trasmette con modalità autosomica recessiva: ciò significa che, generalmente, ne è affetto chi ha ereditato il gene della malattia da entrambi i genitori (soggetto omozigote). Chi invece ha ereditato il gene dell’emocromatosi da uno soltanto dei due genitori (soggetto eterozigote), può essere un portatore sano della malattia, senza manifestarla.

Da cosa nasce la malattia?
Il gene responsabile della malattia, detto HFE, è sito sul braccio corto del cromosoma 6, in prossimità del locus del gene HLA-A. Esso è stato identificato negli Stati Uniti dall’osservazione di due mutazioni – denominate C282Y e H63D – di cui la prima, in particolare, è stata trovata in più del 90% dei pazienti. Le due mutazioni genetiche più frequentemente riscontrate provocano una la sostituzione dell’amminoacido 282 da cisteina a tirosina, l’altra dell’amminoacido 63 da istidina ad aspartato. Queste mutazioni determinano un aumento dell’assorbimento intestinale del ferro introdotto con la dieta, determinandone un accumulo a livello di vari organi, come il fegato, il pancreas, il cuore, le articolazioni e le ghiandole endocrine. In Italia però queste mutazioni sono presenti solo nel 65% dei pazienti, con marcate differenze a seconda dell’origine geografica dei soggetti e con un’incidenza più bassa nel Sud (30%), a dimostrazione di una marcata eterogeneità genetica della malattia nel nostro paese.

ALTERAZIONI DELLA SPERMATOGENESI (INFERTILITà)

Problemi di infertilità riguardano circa il 15% delle coppie in età riproduttiva e, nel 50% circa dei casi, è a carico del partner maschile. Negli ultimi anni è stato dimostrato che il 5-10% dei casi di oligo/azoospermia è imputabile a problemi genetici.
L’analisi genetica ha portato all’identificazione di microdelezioni di geni localizzati nei loci non polimorfici del gene AZF (Azoospermia Factor a,b,c), presenti in numero variabile e denominati STS (Sequenze Tagget Sites).
Attualmente, con lo sviluppo delle tecniche di biologia molecolare, è possibile dimostrare la presenza, in pazienti oligo-azospermici, di microdelezioni del cromosoma Y, così piccole da non poter essere rilevate da un esame classico del cariotipo. Ciò riveste una particolare importanza soprattutto in quelle coppie che si affacciano alla procreazione assistita, per conoscere con più precisione la possibilità di trasmettere ad un figlio lo stesso problema di sterilità del padre.

Cosa consente di valutare il test e in cosa consiste?
Il test per la ricerca delle Microdelezioni del Cromosoma Y consente di valutare se eventi di delezione hanno eliminato sequenze normalmente presenti sul cromosoma Y e coinvolte nella regolazione della spermatogenesi nell’uomo. Il test consiste nell’amplificazione multipla mediante PCR fluorescente di 24 regioni monomorfiche del cromosoma Y STS, distribuite lungo i loci AZFa, AZFb, ed AZFc del cromosoma Y (vedi foto in basso), ed è in grado di identificare quei soggetti in cui è presente una microdelezione di uno o più geni implicati nella spermatogenesi e quindi responsabile della infertilità maschile. Il test prevede, inoltre, l’esame di ulteriori due regioni STS, che fungono da controllo interno del sistema: la regione SRY (mediante la quale è possibile diagnosticare i maschi con cariotipo XX) e la regione ZFX/ZFY, comune a entrambi i cromosomi sessuali, impiegata come controllo della qualità del DNA.
Tranne rare eccezioni, le microdelezioni del cromosoma Y non sono state riportate nella popolazione fertile di controllo.
Il Test delle microdelezioni del cromosoma Y è oggi inserito,insieme all’indagine citogenetica, alla ricerca delle mutazioni del gene CFTR e, più recentemente insieme al polimorfismo 5T dell’introne 8 del gene CFTR, ed all’espansione della tripletta nucleotidica del recettore androgenico (AR), nell’iter diagnostico per la ricerca delle cause genetiche dell’infertilità maschile come anche all’interno del protocollo di preparazione alla fecondazione assistita, in quanto l’alterazione genetica potrebbe essere trasmessa alla prole maschile, nel caso in cui si proceda ad una fecondazione di tipo omologo.

TROMBOFILIA

La metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR) è un enzima importante nel metabolismo dell’omocisteina. Esso è coinvolto nella trasformazione del 5-10 metilentetraidrofolato in 5 metiltetraidrofolato che serve come donatore di metili per la rimetilazione della omocisteina a metionina tramite l’intervento della vitamina B12.

La variante C677T sul gene MTHFR, che causa, nella proteina, una sostituzione dell’aminoacido alanina con l’aminoacido valina (ala222val) provoca  una riduzione dell’attività enzimatica della MTHFR fino al 65% nei soggetti eterozigoti e fino al 30% nei soggetti omozigoti (TT). Tale polimorfismo induce un aumento nel sangue di omocisteina chiamata iperomocisteinemia e una forte riduzione plasmatica di acido folico, conferendo alla variante un’importante fattore di rischio genetico per lo sviluppo di malattie vascolari. In Europa il 42-46% della popolazione risulta essere eterozigote mentre il 12-13% è omozigote rispetto a questa variante.

La metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR) è un enzima importante nel metabolismo dell’omocisteina. Esso è coinvolto nella trasformazione del 5-10 metilentetraidrofolato in 5 metiltetraidrofolato che serve come donatore di metili per la rimetilazione della omocisteina a metionina tramite l’intervento della vitamina B12.

La variante nel nucleotide 1298 del gene MTHFR (A1298C) porta a una sostituzione di un aminoacido glutammato con un aminoacido alanina. A tale sostituzione è stata associata una ridotta attività enzimatica pari al 60% nel caso di variante del solo nucleotide 1298 del gene MTHFR (A1298C) e a circa il 40% se presente in associazione alla variante C677T. Ricerche scientifiche hanno messo in evidenza come elevati livelli di omocisteina possano essere responsabili di aumento del rischio di trombosi, specie se associato alla variante del Fattore V o del Fattore II. Inoltre in condizioni di carenza alimentare di acido folico, la presenza di uno dei polimorfismi dell’MTHFR omozigote mutato o di entrambi in uno stato di eterozigote composto, porta a livelli molto bassi di acido folico nel plasma e ad un rischio di difetti del tubo neuronale nel feto di donne in gravidanza. L’iperomocisteinemia è infine associata anche ad un rischio maggiorato di aborto spontaneo.

Fattore di Leiden : Il Fattore V Leiden (FVL) è la causa più comune di trombofilia ereditaria nella popolazione caucasica e conta dal 30 al 60% dei casi di trombofilia familiare. La trombofilia è causata dalla resistenza plasminica all’azione anticoagulante della proteina C attivata. Tale resistenza è dovuta ad una sostituzione nucleotidica in una specifica regione del gene del Fattore V, meglio conosciuta come “Fattore V di Leiden”. La variante su uno dei due geni del Fattore V (individuo eterozigote) aumenta il rischio di trombosi da 3 a 7 volte. Se la variante è su entrambi i geni (individuo omozigote) il rischio aumenta fino ad 80 volte. Tali rischi aumentano notevolmente se sono presenti altre anomalie nella coagulazione e/o se si aggiungono fattori esterni.

Fattore di Leiden in gravidanza:
In gravidanza, una condizione di eterozigosi per il Fattore V di Leiden può causare un aumento degli aborti spontanei di 3 volte rispetto alla popolazione generale e un rischio di TVP da 2 a 5 volte superiore rispetto alla stessa condizione in donne non incinte e fino a 8 volte superiore rispetto a donne non incinte senza il Fattore V Leiden. La trombofilia causata dal Fattore V Leiden può inoltre predisporre a complicazioni durante la gravidanza, quali preeclampsia, ritardi nella crescita fetale, distacco della placenta e parti prematuri. In gravidanza una condizione genetica di eterozigosi per il Fattore Leiden è considerata predisponente all’aborto spontaneo, alla eclampsia, ai difetti placentari , alla Sindrome HELLP (emolisi, elevazione enzimi epatici, piastrinopenia). Tali manifestazioni sarebbero legate a trombosi delle arterie spirali uterine con conseguente inadeguata perfusione placentare. I soggetti portatori di mutazione del Fattore V di Leiden dovrebbero pertanto sottoporsi a profilassi anticoagulativa in corso di gravidanza o in funzione di interventi chirurgici ed evitare l’assunzione di contraccettivi orali.

La protrombina o fattore II della coagulazione svolge un ruolo fondamentale nella cascata coagulativa in quanto la sua attivazione in trombina porta alla trasformazione del fibrinogeno in fibrina e quindi alla formazione del coagulo. 

E’ stata descritta una variante genetica comune nella regione non trascritta al 3′ del gene che è associata ad elevati livelli di protrombina funzionale nel plasma e conseguente aumentato rischio di trombosi, specie di tipo venosa. Trattasi di una sostituzione di una G (guanina) con una A (adenina) alla posizione 20210(G20210A), una regione non trascritta del gene dalla parte del 3′ che è sicuramente coinvolta nella regolazione genica post-trascrizionale, quale la stabilità dell’RNA messaggero o con una maggiore efficienza di trascrizione del messaggero stesso.

La frequenza genica della variante è bassa (1,0-1,5%) con una percentuale di eterozigoti del 2-3%. L’omozigosi è rara. Per gli eterozigoti c’è un rischio aumentato di 3 volte di sviluppare una trombosi venosa, di 5 volte per l’ictus ischemico, di 5 volte per infarto miocardico in donne giovani, di 1,5 volte per gli uomini, di 7 volte nei diabetici, di 10 volte per trombosi delle vene cerebrali e di 149 volte in donne che assumono contraccettivi orali.

L’inibitore dell’attivatore del plasminogeno di tipo 1 (PAI-1) rappresenta il principale inibitore del processo di attivazione del plasminogeno nel sangue. È noto che esso contribuisce alla formazione del trombo e, conseguentemente, all’insorgenza e allo sviluppo di patologie cardiovascolari sia acute sia croniche. I livelli plasmatici di PAI-1 sono regolati geneticamente ma, soprattutto, sono correlati ad una serie di fattori di rischio per l’aterosclerosi quali, ipertrigliceridemia, diabete, ed insulino-resistenza. Quest’ultima alterazione metabolica, caratterizzata anche da obesità ed accumulo di grasso viscerale, gioca un ruolo fondamentale nella regolazione dell’espressione genica del PAI-1. L’insulina, perlomeno in studi cellulari in vitro, rappresenta un potente induttore della sintesi di PAI-1 in cellule di origine epatica; essa agisce attraverso un complesso meccanismo di attivazione di secondi messaggeri che solo recentemente sono stati da noi identificati. Nonostante le numerose evidenze sperimentali in sistemi cellulari in vitro, l’interpretazione dei dati clinici non fornisce una univoca chiave di lettura per attribuire all’insulina un ruolo diretto nella regolazione dei livelli circolanti di PAI-1. Recentemente è stato osservato che anche il tessuto adiposo potrebbe contribuire all’innalzamento dei livelli di PAI-1 che si osservano in una condizione di insulino-resistenza. Alla luce delle evidenze sperimentali, è comunque ragionevole considerare il PAI-1 come uno dei fattori che contribuiscono al complesso processo di aterotrombosi.

Un polimorfismo presente nella regione promotore del gene del beta Fibrinigeno (FGB), consistente in una transizione G->A in posizione nucleotidica -455, è associato con livelli plasmatici elevati di Fibrinogeno.
 

L’enzima Angiotensin I-Converting Enzyme (ACE) gioca un ruolo chiave nel mantenimento dell’omeostasi cardiovascolare, regolando sia la produzione del potente vaso costrittore Angiotensina II a partire da Angiotensina I, sia inattivando ormoni vaso-dilatatori quali la bradichinina.La concentrazione dell’enzima ACE a livello plasmatico e cellulare è regolato dal corrispondente gene ACE. A livello dell’introne 16 di tale gene è presente un poliformismo del tipo inserzione/delezione dovuta alla presenza (allele I-insertion) o assenza (allele D-deletion) di una sequenza ripetuta Alu di 287 bp.Tale polimorfismo può produrre tre diversi genotipi:

  • II (Inserzione in omozigosi)
  • ID (eterozigosi per Inserzione/Delezione)
  • DD (Delezione in omozigosi)

Molti studi hanno associato il genotipo DD con un incremento del rischio di patologie cardiovascolari, a causa di un conseguente aumento dei livelli plasmatici di ACE (doppi rispetto ai soggetti con genotipo II).

Quai sono le conseguenze?
Tra le conseguenze del polimorfismo ACE ci sono:

  • l’ipertensione,
  • l’arterosclerosi,
  • la nefropatia diabetica,
  • l’ipertrofia ventricolare,
  • la poliabortività.

Inoltre il genotipo DD è un fattore di rischio indipendente per l’infarto del miocardio, quindi è considerato il più pericoloso dei tre genotipi.


Casi in cui è consigliabile verificare la presenza del poliformismo del gene ACE:

  • malattie cardiovascolari premature,
  • trombo embolismo venoso (embolismo nei polmoni,tromboflebiti),
  • familiarità nelle malattie cardiovascolari,
  • prima di iniziare l’uso di contraccettivi orali,
  • ripetuti aborti naturali,
  • individui diabetici,
  • donne con precedenti episodi di trombosi in gravidanza,
  • donne aventi figli con difetti del tubo neurale.

L’APO E è una proteina plasmatica, coinvolta nel trasporto del colesterolo, che si lega alla proteina amiloide, e della quale esistono tre forme: APOE2, APOE3, APOE4, codificate da tre diversi alleli (E2, E3, E4).
Diversi studi hanno mostrato che l’allele 4 (E4) è più frequente nelle persone affette da Alzheimer rispetto a quelle sane; la presenza del genotipo E4 determinerebbe un aumento di circa tre volte il rischio di sviluppare la malattia nelle forme ad esordio tardivo, familiari e sporadiche. Il genotipo APOE2 avrebbe invece un effetto protettivo nei confronti della malattia. La genotipizzazione dell’APOE, tuttavia, fornisce un dato solamente indicativo e non basta da solo a elaborare la diagnosi: infatti, quasi la metà delle persone affette non possiede questo allele, che d’altra parte può essere presente anche in una piccola percentuale di persone sane. Questo test valuta il DNA dell’individuo per determinare quale combinazione di forme di APOE (genotipo) sia presente

Perché Fare il Test?
La genotipizzazione di APOE non è largamente utilizzata. L’esame può essere usato come supporto nella diagnosi di probabile Malattia di Alzheimer (AD) ad insorgenza tardiva in adulti sintomatici.

Quando Fare il Test?
Quando il paziente mostra sintomi di demenza progressiva e il medico vuole determinare la probabilità che i sintomi siano da imputare ad AD.

Quando viene prescritto?
La genotipizzazione di APOE è talvolta utilizzata come test aggiuntivo di supporto nella diagnosi di probabile malattia di Alzheimer ad insorgenza tardiva in adulti sintomatici. E’ chiamato test di suscettibilità o test del fattore di rischio perché indica un aumentato rischio di AD e non è specifico per la diagnosi di AD. Se una persona ha la demenza, la presenza di APOE e4 può aumentare la probabilità che la demenza sia dovuta ad AD ma non prova la presenza della malattia.
Non esiste un test specifico per la diagnosi della malattia di Alzheimer nel corso della vita. I medici possono, tuttavia, fare una diagnosi clinica accurata di AD escludendo le altre potenziali cause di demenza e testando la predisposizione genetica all’AD tramite la genotipizzazione di APOE come informazione. supplementare insieme al test Tau/Aß42.

Cosa significa il risultato del test?
E’ più probabile che abbiano la AD le persone che hanno sintomi di malattia di Alzheimer (AD) ad insorgenza tardiva e che hanno una o più copie di APOE e4. D’altra parte, questo esame non è diagnostico per AD e non può essere utilizzato come test di screening negli individui asintomatici o nei parenti di soggetti affetti. Molte persone che hanno gli alleli e4 non svilupperanno mai AD e anche per quel che riguarda i pazienti sintomatici, solo il 60% di coloro che sono affetti da AD ad insorgenza tardiva hanno gli alleli APOE e4.

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue prelevato da una vena del braccio

Il Test Richiede una Preparazione?
No, non è necessaria alcuna preparazione.

L’Apolipoproteina B-100 (anche chiamata Apolipoproteina B o Apo B) è una proteina coinvolta nel metabolismo dei lipidi ed è la principale proteina costituente delle lipoproteine, come le lipoproteine a bassissima densità (VLDL) e le lipoproteine a bassa densità (LDL, il “colesterolo cattivo”). Le concentrazioni di Apo B tendono a rispecchiare quelle delle LDL-C.

Perché Fare il Test?
Il test viene utilizzato per diagnosticare un problema genetico che causa una sovrapproduzione o una produzione scarsa di Apo B. La mutazione R3500Q nel gene che codifica per la Apo B porta a ipercolesterolemia e a conseguente rischio di patologie cardiovascolari.

Quando Fare il Test?
Il test può essere richiesto per diversi motivi:
– nel caso in cui il paziente abbia una storia personale o familiare di patologia cardiaca;
-nel caso in cui ci siano concentrazioni alte di colesterolo e di trigliceridi nel sangue;
-nel caso in cui il medico curante stia cercando di valutare il rischio di sviluppare una CVD.

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue prelevato da una vena del braccio.

l Test Richiede una Preparazione?
Nessuna. Anche se questo test viene spesso prescritto insieme ad altri test che richiedono il digiuno, perciò può essere indicato al paziente di digiunare per 12 ore, prima di eseguire il test.

Quali informazioni è possibile ottenere?
Il test genetico dell’Apolipoproteina B (Apo B) viene utilizzato, assieme ad altri test lipidici, come supporto nel determinare il rischio individuale di sviluppare patologie cardiache (CVD). Questo test può essere prescritto qualora il paziente abbia una storia familiare di malattie cardiovascolari e/o di concentrazioni elevate di colesterolo e trigliceridi (iperlipidemia).

L’Apolipoproteina A1 (APOA1) costituisce il maggiore componente proteico delle lipoproteine ad alta densità (HDL, il cosiddetto “colesterolo buono”). Poiché APOA1 esercita un ruolo importante nel trasporto inverso del colesterolo, bassi livelli sierici di APOA1/HDL rappresentano un ben conosciuto fattore di rischio di patologie delle arterie coronariche (CAD). Un frequente polimorfismo del gene APOA1 localizzatio nella regione promotore, -75G>A, modula l’espressione dell’apolipoproteina A1. Importanti interazioni tra questo polimorfismo, abitudini dietetiche e livelli di HDL sono ben conosciute. I portatori della variante allelica del polimorfismo -75G>A, possono aumentare il loro livello sierico di HDL in risposta ad una maggiore assunzione con la dieta di acidi grassi insaturi.

Perché Fare il Test?
Il test risulta utile in particolare per persone con livelli bassi di lipoproteine ad alta densità (HDL) e come supporto nella valutazione del rischio di sviluppare una malattia cardiovascolare (CVD).

Quando Fare il Test?

Il test è consigliato nei seguenti casi:

  • In presenza di concentrazioni elevate di colesterolo e di trigliceridi (iperlipidemia) e/o di una storia familiare di CVD;
  • per valutare il rischio di sviluppare una patologia cardiaca;
  • nel monitoraggio dell’efficacia di un trattamento farmacologico e/o di cambiamenti nello stile di vita volti a ridurre la concentrazione di lipidi.

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue venoso prelevato dal braccio.

Il Test Richiede una Preparazione?
No, nessuna. Tuttavia, poiché questo test viene spesso prescritto insieme ad altri test come il profilo lipidico, per i quali viene richiesto di eseguire il prelievo a digiuno, potrebbe essere indicato di digiunare nelle 12 ore precedenti il prelievo.

La genotipizzazione dello Human Platelet Alloantigens (HPA) permette di distinguere le due forme alleliche Pl (A1) e Pl (A2) determinate dal polimorfismo Leu33Pro, consistente in una variazione nucleotidica da T(A1) a C (A2) in posizione 1565, esone 2 del gene ITGB3, con conseguente variazione aminoacidica Leu->Pro a livello del codone 33. Differenti studi hanno associato la presenza di almeno un allele Pl (A2) a stati di ipercoagulazione, con conseguenti complicanze trombotiche venose.

A cosa serve il test genetico?
Gli alloantigeni piastrinici umani (HPAs) è noto essere associati a cambiamenti aminoacidici nelle glicoproteine piastriniche. Queste sostituzioni non incidono nella funzionalità di queste proteine, ma le modifiche ne alterano la loro struttura, la conformazione. Il determinante antigenico perciò può diventare un bersaglio per anticorpi allo- e auto-immuni: le conseguenze possibili sono disordini di sanguinamento, refrattarietà a trasfusioni piastriniche, porpora post-trasfusionale e trombocitopenia neonatale alloimmune.
Ad esempio, l’immunità materna contro gli alloantigeni fetali piastrinici può provocare la trombocitopenia alloimmune fetale o perinatale (PAT). PAT accade quando anticorpi materni di IgG sono trasferiti attraverso la placenta e reagiscono con gli alloantigeni piastrinici fetali derivati dal padre. La trombocitopenia fetale risultante può condurre all’emorragia intracranica (20% dei casi a rischio) ed alla morte fetale. Poiché la tipizzazione piastrinica non viene eseguita di routine, le donne a rischio vengono identificate solo dopo aver avuto un precedente aborto.
La correlazione clinica fra i titoli dell’anticorpo e la PAT non è affidabile per mancanza della caratterizzazione degli allo-antisieri e per la scarsità di piastrine nei pazienti trombocitopenici. Gli specifici antigeni paterni piastrinici reagiscono con gli alloanticorpi solo nel 50% dei casi; quindi, la genotipizzazione consente una valutazione più accurata del rischio, genotipizzando le singole differenze nucleotidiche che caratterizzano i polimorfismi allelici dell’HPA, per poi avere una migliore gestione della gravidanza.

Il test richiede una particolare preparazione all’esame?
No, non è richiesta alcuna preparazione. Come per tutti gli esami, è consigliabile effettuare il prelievo a digiuno.

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue prelevato da una vena del braccio.

E’ chiamato più comunemente allele R2. Da sola dà una debole resistenza alla Proteina-C-attivata, ma in combinazione con il Fattore V di Leiden aumenta ulteriormente il fattore di rischio di trombosi. Rappresenta inoltre un fattore di rischio di infarto celebrale di circa il 3,9%. Cause genetiche alternative del fenotipo APC-resistance, risiedono nel background genetico del Fattore V (FV). L’aplotipo HR2, comprende un polimorfismo (A4070G) nell’esone 13 del FV sostituendo una istidina (allele R1) con una arginina (allele R2) nella posizione 1299 del dominio B del FV (H1299R).
Diversi studi mirati alla valutazione di una sua associazione con il fenotipo APC-resistance e con fenomeni trombotici hanno riconosciuto HR2 come un fattore di rischio protrombotico confermabile da un significativo abbassamento dei valori di APC-ratio in vitro e da un aumentato rischio protrombotico in quei soggetti che ereditavano in trans l’aplotipo HR2 e la mutazione FV Leiden. Inoltre, soggetti con l’aplotipo HR2 hanno un aumento relativo della isoforma più trombogenica e glicosilata del FV (FV1).

Fattore V e coagulazione del sangue:
La coagulazione del sangue è un processo molto complesso che prevede l’intervento in successione di molti fattori proteici diversi. Uno di questi è il Fattore V che, quando è attivo, ha l’effetto di promuovere la coagulazione del sangue attivando la protrombina (Fattore II) a trombina che in questo modo porta alla trasformazione del fibrinogeno in fibrina e quindi alla formazione del coagulo. A sua volta, il Fattore V è regolato da un altro fattore, la proteina C attiva (APC), che inibisce la sua attività e che funge quindi da anticoagulante.

Le trombosi possono verificarsi sia da un meccanismo di coagulazione troppo attivo, che da una ridotta funzionalità dei processi anticoagulanti. Alcuni fattori come il fumo, l’uso di contraccettivi orali, la gravidanza, le operazioni chirurgiche, possono aumentare il rischio di trombosi. D’altro canto, non tutte le persone sono sottoposte allo stesso rischio di sviluppare una patologia di questo genere: c’è chi ha una predisposizione genetica allo sviluppo di trombosi.
Mutazioni su alcuni geni coinvolti nei meccanismi sopra descritti possono aumentare notevolmente le probabilità di insorgenza di questa malattia, soprattutto se sono associate a fattori esterni predisponenti. Ad esempio, nell’ambito della procreazione medicalmente assistita, lo screening di eventuali predisposizioni alla trombofilia è molto importante soprattutto prima di una stimolazione ormonale, che può aumentare notevolmente il rischio di sviluppare trombosi venose e nei casi ripetuti di aborti spontanei. La trombofilia è infatti una causa importante di aborti spontanei ripetuti. Inoltre, in coppie in cui si sono verificati aborti spontanei, è stato osservato che le mutazioni della protrombina G20210A e del Fattore V H1299R hanno una prevalenza significativamente maggiore tra le donne rispetto agli uomini con un plausibile coinvolgimento nella patogenesi della poliabortività.

Il test richiede una particolare preparazione all’esame?
No, non è richiesta alcuna preparazione. Come per tutti gli esami, è consigliabile effettuare il prelievo a digiuno.

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue prelevato da una vena del braccio.

Il Fattore XIII, denominato anche fattore stabilizzante la fibrina, protransglutaminasi plasmatica o fattore di Laki-Lorand, riveste un ruolo decisivo nelle fasi conclusive del processo coagulativo. Tale proteina viene attivata mediante taglio proteolitico ad opera del Fattore II (la trombina), in presenza di ioni calcio e fibrina: viene così agevolato il legame tra molecole di fibrina neoformate dando luogo alla formazione di un reticolo di fibrina (reticolazione monomeri fibrina), stabilizzando così il coagulo.
Uno stato di omozigosi per un particolare polimorfismo (transizione G–>T con conseguente variazione aminoacidica leucina–>valina (V34L) a livello della posizione aminoacidica 34, residuo prossimo al sito di attivazione della trombina) è stato associato ad un aumento elevato dell’attività del Fattore XIII (efficienza catalitica 2,5 più alta), rappresentando quindi, se presente in omozigosi, un fattore protettivo contro le trombosi venose.
Questa mutazione è stata associata a un aumento elevato dell’attività del Fattore XIII (efficienza catalitica 2,5 più alta), rappresentando quindi se presente in omozigosi un fattore protettivo contro le trombosi venose. Recenti studi hanno riportato che il Fattore XIII mutato V34L determina una diminuzione del rischio per la coronaropatia, l’infrazione del miocardio e la malattia cerebrovascolare.

Quali sono i sintomi più comuni nei portatori eterozigoti?
Tuttavia, con una crescente comprensione dei ruoli pleiotropici del Fattore XIII, la forma lievemente più frequente di deficit causata da mutazioni in eterozigosi sta diventando solo ultimamente uno dei temi della ricerca investigativa. Quindi i sintomi clinici possono manifestarsi anche in portatori eterozigoti. Ad esempio, i portatori in eterozigosi possono mostrare una tendenza al sanguinamento provocato da lesioni traumatiche o procedure invasive e, in alcuni casi, sanguinamento del cordone ombelicale, menorragia, aborti spontanei o sanguinamento postpartum.

Il test richiede una particolare preparazione all’esame?
No, non è richiesta alcuna preparazione. Come per tutti gli esami, è consigliabile effettuare il prelievo a digiuno.

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue prelevato da una vena del braccio.

ISTOCOMPATIBILITà, ASSOCIAZIONE ANTIGENE HLA MALATTIA

Il Sistema HLA (Human Leucocyte Antigens) comprende un complesso di antigeni gruppoematici e tissutali, codificati da una serie di geni localizzati sul braccio corto del cromosoma 6. L’importanza del Sistema HLA è determinata dall’osservazione sperimentale che tali antigeni sono responsabili di quella serie di reazioni umorali e cellulari che conducono al rigetto di un trapianto, da cui la loro identificazione come “Antigeni di Istocompatibilità”. Vengono codificati da geni strettamente associati tra loro a formare un “cluster” che viene trasmesso in blocco alla prole, salvo i casi di ricombinazione. I determinanti HLA sono coinvolti nei processi di riconoscimento e comunicazione immunologica, e condizionano la risposta immune.
Si distinguono tre classi di antigeni HLA:

  • quelli di I classe sono antigeni “tissutali” e sono codificati dai loci HLA-A, B e C. Essi sono presenti su tutte le cellule nucleate dell’organismo.
  • Quelli di II classe, anche essi “tessutali” e codificati dai loci HLA-D, DR, DP e DQ, sono presenti sui linfociti B, sui linfociti T attivati, sulle cellule endoteliali, sui macrofagi e sugli spermatozoi.
  • Infine, gli antigeni di III classe, rappresentati dalle frazioni complementari C2, C4 e dal Bf, sono i determinanti “sierici”.

Determinando gli antigeni HLA-A, B, C, DR, DQ e eseguendo il “cross-match”, si selezionano donatori per il trapianto d’organo.

In quali casi è utile la tipizzazione HLA?
La tipizzazione HLA in coppie con abortività ripetuta consente una fine interpretazione immunologica del fenomeno abortivo, attraverso la valutazione del grado di condivisione degli aplotipi HLA tra le coppie di partners a rischio.
Dunque, la tipizzazione HLA è indicata nei seguenti casi:
-per la diagnosi di alcune malattie che dimostrano una associazione con alcuni antigeni del sistema HLA e le cui cause sono in genere sconosciute, come ad esempio l’artrite reumatoide, il diabete giovanile insulino-dipendente, la sclerosi multipla, il lupus eritematoso sistemico etc.
-per l’accertamento preliminare indispensabile nei trapianti d’organo al fine di studiare il grado di somiglianza degli antigeni tissutali determinati geneticamente sulle cellule del donatore e del ricevente.
-per determinare un eventuale incompatibilità genetica tra partners o tra madre e prodotto del concepimento, nei casi di sterilità ed infertilità di coppia che non siano riconducibili ad alcuna causa organica.

La tipizzazione genomica HLA-A viene eseguita per le prove di compatibilità per i trapianti di midollo osseo: i familiari di un paziente che necessita un trapianto di midollo osseo vengono tipizzati in una prima fase di screening per alcuni HLA di classe I e II tra cui l’HLA-B; i donatori di midollo osseo iscritti all’”Italian Bone Marrow Donor Registry” (IBMDR) vengono tipizzati per tutti gli alleli HLA di classe I e II tra cui l’HLA-B. La tipizzazione HLA-B può dare apporto diagnostico per alcune malattie autoimmuni. La tipizzazione HLA-B può servire anche per l’inserimento di pazienti affetti da diversi tipi di neoplasie in protocolli clinici di immunoterapia dei tumori.

Condizioni per la preparazione del paziente:
Nessuna

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue prelevato da una vena del braccio.

Il Sistema HLA (Human Leucocyte Antigens) comprende un complesso di antigeni gruppoematici e tissutali, codificati da una serie di geni localizzati sul braccio corto del cromosoma 6. L’importanza del Sistema HLA è determinata dall’osservazione sperimentale che tali antigeni sono responsabili di quella serie di reazioni umorali e cellulari che conducono al rigetto di un trapianto, da cui la loro identificazione come “Antigeni di Istocompatibilità”. Vengono codificati da geni strettamente associati tra loro a formare un “cluster” che viene trasmesso in blocco alla prole, salvo i casi di ricombinazione. I determinanti HLA sono coinvolti nei processi di riconoscimento e comunicazione immunologica, e condizionano la risposta immune.
Si distinguono tre classi di antigeni HLA:

  • quelli di I classe sono antigeni “tissutali” e sono codificati dai loci HLA-A, B e C. Essi sono presenti su tutte le cellule nucleate dell’organismo.
  • Quelli di II classe, anche essi “tessutali” e codificati dai loci HLA-D, DR, DP e DQ, sono presenti sui linfociti B, sui linfociti T attivati, sulle cellule endoteliali, sui macrofagi e sugli spermatozoi.
  • Infine, gli antigeni di III classe, rappresentati dalle frazioni complementari C2, C4 e dal Bf, sono i determinanti “sierici”.

Determinando gli antigeni HLA-A, B, C, DR, DQ e eseguendo il “cross-match”, si selezionano donatori per il trapianto d’organo.

In quali casi è utile la tipizzazione HLA?
La tipizzazione HLA in coppie con abortività ripetuta consente una fine interpretazione immunologica del fenomeno abortivo, attraverso la valutazione del grado di condivisione degli aplotipi HLA tra le coppie di partners a rischio.
Dunque, la tipizzazione HLA è indicata nei seguenti casi:
-per la diagnosi di alcune malattie che dimostrano una associazione con alcuni antigeni del sistema HLA e le cui cause sono in genere sconosciute, come ad esempio l’artrite reumatoide, il diabete giovanile insulino-dipendente, la sclerosi multipla, il lupus eritematoso sistemico etc.
-per l’accertamento preliminare indispensabile nei trapianti d’organo al fine di studiare il grado di somiglianza degli antigeni tissutali determinati geneticamente sulle cellule del donatore e del ricevente.
-per determinare un eventuale incompatibilità genetica tra partners o tra madre e prodotto del concepimento, nei casi di sterilità ed infertilità di coppia che non siano riconducibili ad alcuna causa organica.

Gli alleli HLA-B fanno parte degli alleli HLA di classe I che sono divisi in alleli HLA-A, HLA-B, HLA-C. Ad oggi sono caratterizzati 432 alleli HLA-B. Gli alleli HLA-B possono avere un ruolo funzionale importante per la clinica dei trapianti, per la patogenesi di alcune malattie autoimmuni e per l’immunoterapia dei tumori.

Condizioni per la preparazione del paziente:
Nessuna

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue prelevato da una vena del braccio.

Il Sistema HLA (Human Leucocyte Antigens) comprende un complesso di antigeni gruppoematici e tissutali, codificati da una serie di geni localizzati sul braccio corto del cromosoma 6. L’importanza del Sistema HLA è determinata dall’osservazione sperimentale che tali antigeni sono responsabili di quella serie di reazioni umorali e cellulari che conducono al rigetto di un trapianto, da cui la loro identificazione come “Antigeni di Istocompatibilità”. Vengono codificati da geni strettamente associati tra loro a formare un “cluster” che viene trasmesso in blocco alla prole, salvo i casi di ricombinazione. I determinanti HLA sono coinvolti nei processi di riconoscimento e comunicazione immunologica, e condizionano la risposta immune.
Si distinguono tre classi di antigeni HLA:

  • quelli di I classe sono antigeni “tissutali” e sono codificati dai loci HLA-A, B e C. Essi sono presenti su tutte le cellule nucleate dell’organismo.
  • Quelli di II classe, anche essi “tessutali” e codificati dai loci HLA-D, DR, DP e DQ, sono presenti sui linfociti B, sui linfociti T attivati, sulle cellule endoteliali, sui macrofagi e sugli spermatozoi.
  • Infine, gli antigeni di III classe, rappresentati dalle frazioni complementari C2, C4 e dal Bf, sono i determinanti “sierici”.

Determinando gli antigeni HLA-A, B, C, DR, DQ e eseguendo il “cross-match”, si selezionano donatori per il trapianto d’organo.

In quali casi è utile la tipizzazione HLA?
La tipizzazione HLA in coppie con abortività ripetuta consente una fine interpretazione immunologica del fenomeno abortivo, attraverso la valutazione del grado di condivisione degli aplotipi HLA tra le coppie di partners a rischio.
Dunque, la tipizzazione HLA è indicata nei seguenti casi:
-per la diagnosi di alcune malattie che dimostrano una associazione con alcuni antigeni del sistema HLA e le cui cause sono in genere sconosciute, come ad esempio l’artrite reumatoide, il diabete giovanile insulino-dipendente, la sclerosi multipla, il lupus eritematoso sistemico etc.
-per l’accertamento preliminare indispensabile nei trapianti d’organo al fine di studiare il grado di somiglianza degli antigeni tissutali determinati geneticamente sulle cellule del donatore e del ricevente.
-per determinare un eventuale incompatibilità genetica tra partners o tra madre e prodotto del concepimento, nei casi di sterilità ed infertilità di coppia che non siano riconducibili ad alcuna causa organica.

Gli alleli HLA-C fanno parte degli alleli HLA di classe I che sono divisi in alleli HLA-A, HLA-B, HLA-C. Ad oggi sono caratterizzati 110 alleli HLA-C. Anche se gli alleli HLA-C sono meno espressi sulla superficie cellulare rispetto agli alleli HLA-A e -B, essi possono avere un ruolo funzionale importante per la clinica dei trapianti, in particolare il trapianto di midollo osseo da donatore familiare aploidentico, per la patogenesi di alcune malattie autoimmuni e per l’immunoterapia dei tumori.
La tipizzazionegenomica HLA-C viene eseguita per le prove di compatibilità per i trapianti di midollo osseo tra paziente e il suo donatore HLA-identico, tra paziente e donatore familiare aploidentico e tra paziente e donatore non consanguineo.
La tipizzazione HLA-C può dare apporto diagnostico per alcune malattie autoimmuni.
La tipizzazione HLA-C può servire anche per l’inserimento di pazienti affetti da diversi tipi di neoplasie in protocolli clinici di immunoterapia dei tumori.

Condizioni per la preparazione del paziente:
Nessuna

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue prelevato da una vena del braccio.

CELIACHIA

La celiachia è una patologia poligenica multifattoriale cioè vi è una forte componente genetica che predispone un individuo, che assume glutine con la dieta (fattore ambientale), a sviluppare la malattia. Nel complesso di istocompatibilità HLA vi sono due geni DQA1 e DQB1, ciascuno in duplice copia, che codificano rispettivamente la catena alfa e beta di un eterodimero (proteina formata da due subunità diverse) presente sulla superficie di alcune cellule del sistema immunitario. Se un individuo presenta gli alleli DQA1*05 e DQB1*02 produce l’eterodimero chiamato DQ2, a rischio maggiore di celiachia (circa l’80% dei celiaci è DQ2). Gli alleli DQA1*03 e DQB1*03:02 codificano l’eterodimero DQ8, a rischio minore di celiachia (10% dei celiaci). Tra i celiaci vi sono anche individui DQA1*05 negativi, cioè per il gene DQA1 possiedono alleli diversi non predisponenti alla celiachia, ma DQB1*02 positivi che hanno, quindi, solo la catena beta di DQ2 (5% dei celiaci). Soggetti con l’eterodimero DQ2 completo e omozigoti per l’allele DQB1*02 (25-30% dei celiaci) hanno il rischio più elevato di celiachia, sono refrattari alla dieta e possono sviluppare linfomi. A seconda del genotipo osservato è stato definito un gradiente di rischio di sviluppare la celiachia: omozigote DQB1*02>DQ2>DQ8>DQ2 solo catena beta. I geni DQA1 e DQB1 sono fortemente associati al gene DRB1 e in particolare il genotipo DQ2 è associato nel 65% dei casi all’allele DRB1*03 (DR3), nel 30% a DRB1*11/07 o DRB1*12/07 (DR5/7); quasi tutti i DQ8 sono DR4 (DRB1*04) e i DQ2 solo catena beta sono quasi sempre DRB1*07 (DR7). Gli alleli DRB1 non influenzano il rischio di celiachia ma possono essere utili per convalidare i risultati del test.

In cosa consiste il Test genetico?:
Presso il Laboratorio BIOMEDICAL è possibile eseguire il test genetico per la ricerca degli alleli dei geni HLA DQA1, DQB1 e DRB1. La presenza di una delle combinazioni HLA di predisposizione determina un aumento del rischio di celiachia, mentre la loro assenza rende del tutto improbabile lo sviluppo della malattia. Si tratta di un test genetico che non ha un significato diagnostico assoluto ma può contribuire a risolvere casi dubbi; viene soprattutto utilizzato per il suo significato predittivo negativo in quanto soggetti negativi per DQ2, DQ8 e DQB1*02 si ammalano molto raramente.

Che Tipo di Campione viene richiesto?
DNA estratto da linfociti di sangue periferico raccolto in provette con EDTA.

SPONDILITE REUMATOIDE ANCHILOSANTE

Gli antigeni leucocitari umani (HLA) permettono al sistema immunitario di riconoscere le cellule “proprie” (dello stesso organismo) da quelle estranee ad esso. Ogni individuo ha una combinazione di antigeni HLA specifica, presente sulla superficie dei leucociti e su altre cellule nucleate, distintiva per ciascuna persona.
Il termine HLA-B27 viene utilizzato anche per riferirsi al gene codificante per la proteine HLA-B27. La sua presenza è associata a patologie autoimmuni come la spondilite anchilosante, l’artrite reumatoide giovanile, l’artrite reattiva e l’uveite anteriore acuta. L’HLA- B27 è presente anche in pazienti affetti da sindrome dell’intestino irritabile e in altre patologie croniche.
La spondilite anchilosante e l’artrite reattiva sono patologie croniche e progressive, presenti più frequentemente negli uomini.

Perché Fare il Test?
Per determinare la presenza o l’assenza dell’antigene HLA-B27 sulla superficie dei leucociti, come sostegno nella diagnosi di alcune patologie autoimmuni.

Quando Fare il Test?
In presenza di sintomi quali dolore e rigidità articolare, infiammazione cronica in alcune aree come schiena, ginocchia e gomiti, o un’infiammazione dolorosa degli occhi chiamata uveite, specialmente in pazienti di sesso maschile con esordio precoce dei sintomi (prima dei 30 anni).

Quali informazioni è possibile ottenere?
L’esame per HLA-B27 viene generalmente richiesto per la conferma diagnostica di spondilite anchilosante, di Sindrome di Reiter e talvolta di uveite anteriore. Questo test non può essere utilizzato come test diagnostico, ma fornisce un elemento utile in associazione alla presenza di sintomi e ad altri test di laboratorio. Il test HLA-B27 viene spesso associato ad altri esami, con lo scopo di fornire un quadro diagnostico più completo di patologie associate a dolori articolari cronici, infiammazione e rigidità. Questi test includono Fattore Reumatoide, VES (velocità di eritrosedimentazione) e PCR(proteina C reattiva). Il test per HLA-B27 viene spesso utilizzato nei casi di uveite ricorrente non associati a cause evidenti.

Quando viene prescritto il test e quali sono i sintomi?
Il test viene prescritto nel caso in cui il medico sospetti una patologia autoimmune associata a HLA-B27, oppure a pazienti con uveite ricorrente. Questo test è particolarmente utile nella diagnosi di spondilite anchilosante e in altre patologie poiché le lesioni ossee non sono visibili ai raggi X durante i primi anni dall’insorgere della malattia.
I primi sintomi si manifestano precocemente, in genere prima dei 30 anni. Spesso questi sintomi precoci sono subdoli e di difficile identificazione, manifestandosi con le caratteristiche alterazioni ossee e articolari visibili all’esame radiografico solo dopo alcuni anni.

  • La spondilite anchilosante è caratterizzata da dolore, infiammazione ed irrigidimento graduale della spina dorsale, del collo e del torace.
  • L’artrite reattiva (Sindrome di Reiter)è caratterizzata da un gruppo di sintomi tra i quali infiammazione articolare, dell’uretra e degli occhi, oltre che da lesioni della pelle.
  • L’artrite reumatoide giovanile è una forma di artrite che si manifesta precocemente.
  • L’uveite anteriore acuta è associata ad infiammazione ricorrente di uno o di entrambi gli occhi

Sebbene l’antigene HLA-B27 non sia responsabile di queste patologie, la sua presenza è stata associata a queste patologie. Per esempio, sebbene solo il 6% delle persone abbia HLA-B27, l’80-90% delle persone con spondilite anchilosante è positiva per questo antigene.

Cosa significa il risultato del test?
La presenza dell’antigene HLA-B27 sulla superficie cellulare è associata ad una maggiore probabilità per il paziente di sviluppare alcune patologie autoimmuni.

  • Un risultato positivo associato a sintomi quali dolore cronico, infiammazione, degenerazione ossea, è probabilmente indicativo di una patologia autoimmune come la spondilite anchilosante o l’artrite reattiva. Ciò è particolarmente verosimile se il paziente è giovane, di sesso maschile e se i sintomi sono sopraggiunti entro i primi quaranta anni di vita.
  • Un risultato negativo non può tuttavia escludere del tutto la patologia autoimmune; esiste una piccola percentuale di casi in cui tali patologie sono presenti in assenza di tale antigene.
  • In maniera analoga, la presenza dell’antigene in persone che non manifestano alcun sintomo, non è clinicamente significativa. Sono in corso di studi i fattori che, associati alla presenza di HLA-B27, possano essere predisponenti o acutizzare queste patologie.

La presenza o l’assenza di specifici geni HLA è determinata geneticamente ed è pertanto ereditaria. Se due membri della stessa famiglia sono positivi per HLA-B27 e uno dei due sviluppa una malattia autoimmune, allora è molto probabile che l’altro componente della famiglia sviluppi la stessa patologia.

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue venoso prelevato dal braccio.

Esiste una preparazione al test che possa assicurare la buona qualità del campione?
No, non è necessaria alcuna preparazione.

PREDISPOSIZIONE GENETICA AL TUMORE AL SENO

I geni BRCA1 e BRCA2 sono due geni oncosoppressori. Normalmente questi geni svolgono una funzione fondamentale nel prevenire il cancro tramite la produzione di proteine che sopprimono la crescita di cellule anormali. La funzionalità di questi geni però può essere alterata da alcuni cambiamenti (mutazioni) che possono determinare una crescita cellulare incontrollata. Questo test rileva le mutazioni presenti in questi geni responsabili dell’ereditarietà del carcinoma mammario o ovario. 

La maggior parte dei carcinomi mammari sono forme sporadiche ma nel 5-7% risultano essere legati a fattori ereditari tra i quali le mutazioni BRCA1 e BRCA2. Anche gli uomini possono sviluppare questo tipo di tumore, più frequentemente per la presenza di mutazioni nel gene BRCA2. Le donne portatrici di mutazioni nel gene BRCA1 hanno un rischio di ammalarsi di tumore alla mammella nel corso della vita pari al 65% e del 40% se portatrici di mutazioni nel gene BRCA2. Il carcinoma alla mammella nelle donne portatrici di mutazioni ereditarie può svilupparsi in giovane età, prima della menopausa. 

Il cancro ovarico rappresenta invece il 30% di tutti i tumori maligni dell’apparato genitale femminile e il 3% di tutti i casi di tumore nelle donne. Nel 5-10% dei casi si tratta di forme ereditarie; le mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2, se presenti, sono associati ad un rischio del 20-60% di sviluppare il tumore ovarico. Le mutazioni di BRCA sono ereditarie e possono essere quindi trasmesse nelle generazioni. Ogni persona possiede due copie del gene BRCA1 e due del gene BRCA2, una di origine materna e una di origine paterna. Le mutazioni possono essere presenti in una o entrambe le copie del gene.

Perché Fare il Test?
Il test è utile per valutare il rischio di sviluppare il carcinoma mammario o carcinoma ovarico associato alle mutazioni dei geni BRCA1 o BRCA2.

Quando Fare il Test?
È opportuno fare il test nel caso in cui il paziente in esame o un familiare stretto del paziente abbia sviluppato un carcinoma ovarico in qualsiasi fascia d’età o un carcinoma mammario al di sotto dei 50 anni, o nel caso in cui un familiare stretto del paziente presenti una mutazione di BRCA1 o BRCA2.

Quali informazioni è possibile ottenere?
I test BRCA1 e BRCA2 vengono utilizzati nella ricerca di mutazioni associate con un rischio aumentato di sviluppare il carcinoma mammario e ovarico. Nel caso in cui in un nucleo familiare con una storia positiva per la presenza di carcinoma mammario e/o ovarico venga ritrovata una mutazione del gene BRCA1 o BRCA2, allora la stessa mutazione deve essere ricercata anche negli altri membri della famiglia, al fine di valutare il rischio dei vari componenti di sviluppare quel tipo di cancro.
La percentuale di soggetti portatori della mutazione BRCA1 e BRCA2 è molto bassa, per questo motivo lo screening di popolazione non viene effettuato.  In ogni caso, prima e dopo il test BRCA è raccomandata una consulenza genetica.

Quando viene prescritto?
Il test BRCA1 e BRCA2 non viene raccomandato come test di screening sull’intera popolazione. Nel caso in cui una persona abbia una forte storia familiare per il carcinoma mammario o ovarico o abbia un familiare con mutazioni di BRCA1 o BRCA2 accertate, allora può decidere se sottoporsi al test. Prima di sottoporsi al test è raccomandato rivolgersi al proprio medico curante e sottoporsi ad una consulenza genetica.

Cosa significa il risultato del test?
La presenza di mutazioni dei geni BRCA1 o BRCA2 indicano che la persona che si è sottoposta al test ha un rischio maggiore di sviluppare una forma ereditaria di carcinoma mammario o ovarico. Tuttavia, anche all’interno della stessa famiglia portatrice della stessa mutazione, il tumore potrebbe non svilupparsi in tutti i componenti o nello stesso momento della vita. Il rischio stimato di sviluppare un tumore alla mammella in presenza di mutazioni nei geni BRCA1 o BRCA2 è dell’85%, contro il 30-50% del carcinoma ovarico. L’assenza delle mutazioni dei geni BRCA1 o BRCA2 significa che il paziente analizzato non fa parte del gruppo di persone a maggior rischio di sviluppare il tumore ma che le probabilità sono paragonabili a quelle della popolazione generale (non nulle).

Come viene raccolto il campione per il test?
Il test per la ricerca di mutazioni di BRCA richiede un campione di sangue venoso prelevato dal braccio o un campione di cellule prelevate tramite un tampone orale.

Il Test Richiede una Preparazione?
No, ma è fortemente raccomandata una consulenza genetica.

VIRUS EPATITE B

L’epatite B è una patologia causata dall’infezione operata dal virus HBV. Il test HBV DNA misura la quantità di virus presente nel sangue. Un risultato elevato di solito significa che il virus si sta replicando attivamente e il trattamento non è efficace. Un risultato basso o sotto il limite di rilevabilità (indeterminato) significa che il virus non è presente o è presente in un numero così basso di copie che non può essere rilevato. Questo di solito indica che la terapia è efficace. Tuttavia, il virus può aumentare nuovamente dopo l’interruzione della terapia.

Come si trasmette?
L’HBV si trasmette tramite il contatto con il sangue o altri liquidi biologici di persone infette. Il contagio può avvenire, ad esempio, tramite la condivisione di aghi per l’iniezione di droghe per via endovenosa o tramite rapporti sessuali non protetti. Le persone che abitano o che viaggiano in zone del mondo ad alta prevalenza di epatite B hanno un rischio maggiore di contrarre l’infezione.
In rari casi, le madri possono trasmettere l’infezione ai figli durante il parto o tramite l’allattamento. Il virus non si diffonde tramite contatti superficiali come strette di mano, colpi di tosse o starnuti. Tuttavia, il virus può sopravvivere fuori dall’organismo per più di sette giorni, anche nel sangue secco, e può essere contratto usando rasoi o spazzolini di una persona infetta o tramite strumenti per cure estetiche o odontoiatriche non correttamente igienizzati.

Quali sono i sintomi?
La grande maggioranza delle persone con infezioni croniche è asintomatica.
Nelle infezioni acute, i sintomi sono molto simili a quelli che si sviluppano nelle altre epatiti acute e includono febbre, affaticamento, nausea, vomito e ittero, anche se in più della metà dei casi non vi sono sintomi. Nell’epatite acuta, il fegato è danneggiato e non funziona più normalmente. Di conseguenza le tossine e prodotti di scarto come la bilirubina non vengono più metabolizzati ed eliminati. La patologia pertanto determina l’accumulo progressivo nel sangue di bilirubina e degli enzimi epatici. I test come bilirubina e pannello epatico rappresentano un sostegno nella diagnosi di epatite, pur non consentendo la definizione dell’agente eziologico. I test per la ricerca dei virus dell’epatite consentono invece di definirne la causa.

Perché Fare il Test?
Il test è utile per lo screening e la diagnosi di epatite B acuta o cronica, per rilevare precedenti esposizioni al virus HBV, epatiti pregresse e, talvolta, nel monitoraggio della terapia.

Quando Fare il Test?
-In persone a rischio di aver contratto un’infezione da HBV o in presenza di segni e sintomi di epatite, come itterizia o aumento inspiegabile dell’enzima epatico ALT;
-in persone che devono sottoporsi a trattamenti chemioterapici o con immunosoppressori;
-in persone trattate per epatite B o C (HCV);
-nel caso in cui si voglia controllare lo stato immunitario per valutare la necessità di un vaccino.

C’è altro da sapere?
L’infezione da HBV, se presente, può danneggiarne il fegato e diffondersi ad altre persone nonostante la persona sia asintomatica. Per questo motivo, è importante fare il test se si pensa di essere stati esposti e contagiati.
Esiste un test per determinare il tipo specifico (ceppo) di virus dell’epatite B che causa l’infezione, chiamato test di genotipizzazione dell’HBV.

Che tipo di campione viene richiesto?
Un campione di sangue venoso prelevato dal braccio.

Il test richiede una preparazione?
È preferibile effettuare il prelievo a digiuno.

VIRUS EPATITE C

Il virus HCV (virus ad RNA) causa la maggior parte delle epatiti non A e non B. Tramite la trascrizione inversa e la successiva amplificazione, si può rilevare la presenza del virus nel siero. Ciò permette sia di rilevare la presenza del virus quando ancora non è evidenziabile la risposta anticorpale (periodo finestra), sia di verificare l’ effetto terapeutico della terapia interferonica od antivirale in genere (analisi quantitativa). Inoltre, in caso di soggetti con ALT normali ed infezione cronica la ricerca del genoma virale è necessaria per sapere se il virus è inattivo (esame negativo) o se il virus pur replicandosi (esito positivo) non è stato in grado fino a quel momento di danneggiare il fegato in modo significativo.

Qual è la causa dell’infezione?
L’epatite C è un’infezione causata da un virus a RNA.

Qual è la Diagnosi?
La diagnosi viene confermata mediante la ricerca di HCV-RNA con la PCR, tale metodica sembra essere attualmente la più sensibile.

HCV RNA qualitativo e quantitativo:
ll test permette la conferma definitiva della diagnosi di epatite C mediante la rilevazione diretta dell’RNA virale circolante possibile con un test molecolare basato sulla polymerase chain reaction (PCR).
Se questo test risulta positivo (HCV-RNA qualitativo), significa che sussiste una replicazione virale in corso e quindi una infezione.
La stima della carica virale (HCV-RNA quantitativo) fornisce, inoltre, importanti indicazioni sulla risposta del paziente al trattamento e all’eventuale necessità di modificare il regime terapeutico.

Tipizzazione dell’ HCV (Genotipo):
Il virus dell’HCV è altamente variabile. Fino ad oggi sono stati individuati nove tipi che si suddividono, poi, in molteplici sottotipi. In Italia sono diffusi soprattutto i sottotipi 1a, 1b, 2a, 2c, 3. Poiché esiste una stretta correlazione tra il genotipo del virus HCV e la risposta alla terapia interferonica, la conoscenza del sottotipo infettante risulta essere un dato fondamentale per una corretta impostazione della terapia.

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
Un campione di sangue prelevato da una vena del braccio.

Il test richiede una particolare preparazione all’esame?
No, non è richiesta alcuna preparazione.

HUMAN PAPILLOMA VIRUS (HPV)

Il virus del Papilloma umano (HPV) comprende un gruppo di circa 100 ceppi virali di cui una ventina potenzialmente infettivi per l’uomo. In particolare, alcuni tipi sono messi in correlazione con il carcinoma del collo dell’utero (ceppi 16 e 18).
La prevalenza di questa infezione è molto alta negli adulti sessualmente attivi ed aumenta con il numero di partner sessuali. HPV é responsabile di oltre il 90% dei carcinomi del collo dell’utero, il tumore più frequente nelle donne dopo il cancro al seno.

Diagnostica molecolare
La tecnica della PCR rappresenta quanto di meglio oggi si possa pretendere dalla evoluzione delle biotecnologie nell’area della Patologia Clinica per la diagnostica delle malattie batteriche e virali. Mediante questa tecnica, si possono svelare quadri di patologie infettive latenti o con scarsa presenza di agenti infettanti, che risulterebbero di difficile diagnosi o rimarrebbero senza diagnosi con qualsiasi altra tecnica. Con la tecnica di PCR, l’elevata specificità e sensibilità, mediante cicli ripetuti amplificazione genica, si possono esaminare campioni dove la presenza del genoma (DNA o RNA) dell’agente infettante viene amplificata e quindi dall’analisi dell’acido nucleico, risalire inequivocabilmente all’agente eziologico responsabile della patologia.

A cosa serve il Test?
Il test per la ricerca e tipizzazione di DNA virale (HPV-DNA test) mira a rilevare la presenza del virus e, soprattutto, di quei sierotipi ritenuti ad alto rischio per lo sviluppo del cancro cervicale. In questo modo è possibile individuare le donne potenzialmente a rischio di cancro del collo dell’utero.
L’attribuzione del tipo virale viene condotta mediante l’analisi di sequenza impiegando un sequenziatore automatico e successiva comparazione della sequenza ottenuta con i tipi e sottotipi virali identificati e descritti in letteratura.

Indicazioni cliniche:
Screening preventivo del carcinoma cervicale; diagnosi lesioni sospette.

Quale Tipo di Campione bisogna raccogliere per eseguire il Test?
Il test viene eseguito su tamponi urogenitali (tampone cervicale, tampone vaginale, tampone uretrale).
Inoltre, la ricerca del DNA virale può essere effettuata anche nell’uomo su un campione di liquido seminale.

Ci sono particolari condizioni da seguire per prepararsi al Test?

-Evitare l’utilizzo di creme detergenti, idratanti e creme dense prima del prelievo;
-Evitare rapporti sessuali nelle 24 ore precedenti.
-In assenza di specifica richiesta del medico curante/specialista, si consiglia di non effettuare l’esame in corso di terapia antibiotica/antivirale: far trascorrere almeno una settimana dalla fine della terapia.
-Sospendere eventuali trattamenti con ovuli o candelette almeno 48 ore prima.
-Non fare lavande vaginali interne nelle 24 ore precedenti.
-Non eseguire l’esame durante il periodo mestruale.

Approfondimenti:
Sierotipi esaminati: 06, 11, 16, 18, 31, 33, 35, 39, 40, 42, 43, 44, 45, 51, 52, 53, 56, 58, 59, 66, 68, 72, 73, 82.
In nessun caso la positività al test implica la diagnosi di uno stato di malattia. Infatti, la maggior parte delle infezioni da HPV sono temporanee e si risolvono spontaneamente senza lasciare sequele.
Il formarsi di una lesione preneoplastica, ed in seguito neoplastica, richiede la persistenza del virus per lunghi periodi, l’inefficacia delle comuni difese immunitarie del soggetto ospite e la presenza di altri co-fattori, il più importante dei quali sembra essere il fumo capace di potenziare l’attività oncogena.

MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE

La maggior parte delle specie fungine che causano patologie nell’uomo sono saprofiti del suolo. Solo le specie di Candida appartengono alla microflora umana. Tra più di 190 specie del genere Candida, la specie albicans è la più comunemente isolata come patogeno umano. La Candida albicans è un lievito che vive naturalmente all’interno del tratto gastrointestinale, nella vagina, sulla cute, e come componente della flora orale dell’uomo. In presenza di una flora equilibrata è innocuo; in caso di alterazione di questo equilibrio (antibiotici, corticosteroidi, diabete, deficit immunitari) il micete prolifera, produce tossine e, da una forma latente, passa ad una forma clinica.
Diverso è il caso delle infezioni fungine, principalmente da Candida spp, rappresentanti un’importante causa di mortalità e morbilità in epoca neonatale, in particolar modo nei pretermine e nei neonati affetti da complicanze chirurgiche. In questi casi la diagnosi è spesso difficile, in quanto il neonato presenta una sintomatologia talora subdola con esordio non sempre individuabile in maniera chiara. Il problema è aggravato dal fatto che tali infezioni sono associate frequentemente a localizzazioni d’organo secondarie alla candidemia e a sequele a lungo termine spesso gravi ed invalidanti dal punto di vista neurosensoriale e neurocomportamentale.
Più comunemente, una patologia apparentemente ordinaria come la candidosi vaginale può comportare, se non correttamente affrontata, enormi disagi, sia di natura fisica, che psicologica. Tale affezione, comune in ambito ginecologico, è perlopiù causata da Candida albicans. Sono frequenti le descrizioni di casi in cui le donne non hanno avuto precedenti patologici di rilievo, con primi sintomi d’organo in occasione di “banali” stati febbrili, seguitati poi dalla comparsa di prurito vaginale senza secrezione.

Diagnostica molecolare:
L’infettivologia molecolare è la branca della biologia molecolare che si occupa della diagnosi molecolare delle infezioni virali, batteriche, micotiche e parassitarie mediante amplificazione genica, attraverso la quale è possibile mettere in evidenza la presenza del genoma del micro-organismo patogeno ed avere quindi l’immediata certezza sia della avvenuta infezione sia degli effetti della eventuale terapia durante i vari stadi della malattia.

Tipo di esame da eseguire:
Esame colturale (tampone).

Indicazioni da seguire per effettuare l’esame:
Il tampone consiste nel prelievo di secrezioni vaginali attraverso l’utilizzo di un tampone vaginale sterile. I liquidi vaginali dovranno essere conservati in apposite provette e consegnati in laboratorio al più presto (1 ora se conservati a temperatura ambiente, 4 ore se conservati a 2-8° C).

Valori di riferimento (indicano l’intervallo entro il quale i valori sono considerati nella norma):
Batteri acidi nucleici in materiali biologici ibridazione – Candida: negativo.

Diagnosi:
Se il risultato del test è positivo, siamo in presenza di infezione da Candida.

Chlamydia trachomatis (CT), un batterio intracellulare obbligato, è tra i più comuni agenti patogeni a trasmissione sessuale.
Anche se le manifestazioni sintomatiche dovute all’infezione di questo patogeno sono molto leggere, tanto da non essere spesso riconosciute dalle persone che ne sono colpite, le conseguenze a carico dell’apparato riproduttivo, specie femminile, possono essere molto gravi.
Nella maggior parte dei casi l’infezione interessa le donne, soprattutto le adolescenti e le giovani sessualmente attive. Dal 10 al 40% delle donne con infezione non trattata sviluppano la malattia infiammatoria pelvica (pelvic inflammatory disease, PID) che può condurre alla sterilità.

Nel sesso maschile, l’infezione può interessare l’epididimo, causando dolore e febbre. Il danno permanente sembra meno probabile, anche se negli ultimi anni alcuni studi segnalano una possibile correlazione tra l’infezione da clamidia negli uomini e sterilità. Rare le conseguenze più serie, come la sindrome di Reiter, una forma di artrite sieronegativa accompagnata da lesioni epidermiche e infiammazione agli occhi e all’uretra.La clamidia si trasmette generalmente attraverso i rapporti sessuali di ogni tipo, vaginali, anali e orali. Una donna gravida infetta può, durante il parto, passare al neonato l’infezione, che si manifesta come un’infiammazione agli occhi e all’apparato respiratorio. La clamidia è, infatti, una delle prime cause di congiuntivite e di polmonite nei neonati.
Se non trattata, l’infezione può progredire causando conseguenze sia a breve che a lungo termine, che possono, come i sintomi, rimanere “silenti”. Nelle donne, la manifestazione più tipica dell’infezione è l’infiammazione pelvica: il coinvolgimento di tube, utero e tessuti circostanti e il processo di riparazione cicatriziale post infettivo, può comportare un danno permanente (l’occlusione tubarica è la conseguenza più temibile), con dolore cronico, infertilità e possibilità di gravidanze extrauterine. Le donne affette da clamidia hanno una probabilità di rischio di contrarre il virus dell’HIV cinque volte più alta.

Diagnostica molecolare:
La Clamydia viene diagnosticata attraverso un esame di laboratorio che può essere effettuato su due diversi tipi di materiale: prelievo da tessuti infetti (tipicamente il tampone vaginale), campione delle urine. Oltre al soggetto interessato, è necessario che anche tutti i partner sessuali vengano testati per la presenza del batterio. Le tecniche di amplificazione dell’acido nucleico (NAAT) hanno superato la coltura cellulare e la determinazione antigenica per la diagnosi delle infezioni da Chlamydia trachomatis per le loro spiccate sensibilità. Infatti, un netto incremento della specificità e soprattutto della sensibilità nella diagnosi di patologie Chamydia correlate é reso possibile dalla determinazione diretta del DNA di tale patogeno, mediante la tecnica di PCR. Tale metodica consente di individuare una specifica regione del genoma di Chlamydia Tr. permettendo una diagnosi precisa anche in quei campioni (urina, sangue) in cui il parassita può avere scarsa o nulla vitalità oppure carica microbica molto bassa (secreti congiuntivali, liquidi seminali e sinoviali). Infatti, é proprio in questi casi che si determinano le condizioni cliniche sfavorevoli (latenza, asintomaticità e cronicizzazione), che sono alla base dell’ elevata incidenza del contagio.

Materiale analizzato:
DNA estratto da tamponi cervico-vaginali, uretrali, rettali, urina, liquido seminale.

Mycoplasma genitalium è un batterio sessualmente trasmesso, associato con parecchie malattie e perciò clinicamente importante. E’ il più piccolo microrganismo capace di autoreplicarsi. Alcuni casi di complicazioni, artriti, prostatiti, evidenze di associazioni con l’endometrite e malattia infiammatoria pelvica sono riportate in letteratura scientifica. Malgrado i non molti studi, Mycoplasma genitalium è stato indicato essere causa di infertilità femminile.
La diagnosi precoce e il trattamento di Micoplasma genitalium può rivelarsi importante nel ridurre l’infertilità, anche in assenza di fattori di rischio noti, come disturbi ormonali o sindrome dell’ovaio policistico.
Evidenziare il batterio tramite coltura è estremamente complesso, mentre i metodi sierologici sono poco specifici. Il Micoplasma genitalium necessita di circa 1-2 mesi per crescere, pertanto la sua presenza viene di attualmente valutata tramite il test molecolare per la ricerca del DNA.

Come si trasmette?
Negli adulti questi organismi vengono trasmessi per via sessuale, causando uretrite non gonococcica (NGU, non correlata alla gonorrea), alcune infiammazioni della prostata (prostatiti) negli uomini e, nelle donne, infiammazioni associate alla presenza di secrezioni vaginali e malattia infiammatoria pelvica.

Perché Fare il Test?
Il test ha lo scopo di rilevare la presenza di un’infezione recente o attiva operata da Mycoplasma genitalium.

Quando Fare il Test?
Nel caso in cui il clinico sospetti, sulla base dei sintomi del paziente, la presenza di infezioni genitali che potrebbero essere causate da Mycoplasma genitalium.

Che Tipo di Campione Viene Richiesto?
La rilevazione delle infezioni genitali richiede un tampone ottenuto dalla cervice o dall’uretra.

Il Test Richiede una Preparazione?
No, nessuna.

Il batterio Neisseria gonorrhoeae (NG) è un batterio intracellulare facoltativo, tipicamente aggregato a coppia (diplococco) che causa una malattia a trasmissione sessuale chiamata gonorrea. NG è un patogeno particolarmente fragile, suscettibile a variazioni di temperatura, per cui la sopravvivenza al di fuori dell’organismo umano, unico ospite, è limitata. Nei maschi NG infetta preferenzialmente la mucosa del tratto uretrale, provocando secrezioni purulente e bruciore, mentre nella donna colonizza la mucosa cervicale e il collo dell’utero e può manifestarsi con leucorrea abbondante mucopurulenta e bruciore vulvo-vaginale.
L’infezione può essere silente e riconosciuta solo all’insorgere di complicanze. Nelle donne in gravidanza l’agente infettivo può essere trasmesso al feto per via ascendente a partire dalla cervice infetta o più frequentemente intrapartum, durante il passaggio del feto nel canale del parto. L’infezione per via ascendente può determinare, se non trattata, aborto, corioamnionite, rottura prematura delle membrane, parto pre-termine, endometrite postpartum. L’infezione intrapartum può essere causa di congiuntivite neonatale, che, se non trattata, può portare alla cecità.

Test molecolare:
Dal momento che le infezioni da NG sono frequenti e asintomatiche e quelle clinicamente manifeste possono non essere facilmente distinte da altre infezioni e trasmissione sessuale, negli ultimi anni con lo sviluppo di tecniche di biologia molecolare, come la Real Time PCR, sono stati introdotti test che permettono una identificazione rapida e precisa del patogeno. La metodica utilizzata è la Real Time PCR che assicura massima affidabilità e tempi di risposta molto rapidi.

Materiale analizzato:
DNA estratto da tamponi cervico-vaginali, uretrali, rettali, urina, liquido seminale.

L’Ureaplasma urealyticum è un micoplasma del genere Ureaplasma. In tutti i mammiferi i micoplasmi colonizzano più comunemente le vie genitali e le vie respiratorie. La colonizzazione vaginale in gravidanza da parte dell’U. urealyticum varia dal 40 all’80% in funzione di vari fattori. Sembrerebbe al momento attuale che la colonizzazione delle alte vie genitali femminili con l’U. urealyticum ed ancor più lo sviluppo di una malattia infettiva legata alla sua presenza si associno a numerose complicanze della gravidanza e del periodo perinatale come aborto ricorrente, crioamnionite, parto pretermine, nascita di neonato di basso peso o di nato morto, malattia febbrile nel postpartum, mentre questo non avverrebbe in caso di semplice colonizzazione delle basse vie genitali.

Infezione neonatale:
La trasmissione verticale dell’U.urealyticum varia dal 18 al 55%; il tipo di parto non sembra avere influenza sulla trasmissione, mentre importante sarebbe la presenza di corioamniosite. La colonizzazione del neonato comunque raramente comporta una malattia infettiva nel neonato a termine, mentre può determinare malattia anche grave in neonati pretermine in particolare con peso <1500 g. La colonizzazione delle vie respiratorie in neonati pretermine con malattia delle membrane ialine o con malattia polmonare cronica (CLD) sembra aggravarne il decorso clinico.

Diagnosi:
La diagnosi di infezione da U. urelayticum è difficile per le caratteristiche biologiche dell’organismo. I materiali su cui effettuare indagini colturali sono rappresentati da tessuto placentare e, nel neonato, da aspirato tracheale, sangue, liquor, urine, aspirato gastrico e qualsiasi liquido biologico si sospetti contaminato. Sono necessari appositi terreni di coltura e quando non è possibile esaminare immediatamente il campione sono necessari particolari terreni di trasporto; inoltre la crescita può richiedere più giorni. L’impiego della tecnica della Polymerase Chain Reaction(PCR) elimina tutti i problemi degli esami colturali ed ha mostrato maggiore sensibilità.

Prevenzione e terapia:
E’stato proposto lo screening di tutte le donne con conseguente eradicazione dell’infezione prima del concepimento, tuttavia tale possibilità è stata messa in discussione per l’elevata diffusione del microrganismo e per la difficoltà di ottenere una eradicazione duratura. In futuro probabilmente il trattamento preventivo andrà indirizzato nei confronti delle donne con localizzazione del microrganismo a livello placentare.

Trichomonas Vaginalis è l’agente eziologico responsabile di infezioni vaginali molto diffuse. È il patogeno più comune trasmesso per via sessuale, anche più della Chlamydia Trachomatis e nel 2008 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato circa 276,4 milioni di nuovi casi tra gli adulti di età compresa tra i 15 e i 49 anni.

Ricerca molecolare:
Oggi le linee guida internazionali raccomandano l’uso di test molecolari (NAAT) per rilevare Trichomonas Vaginalis perché sono più sensibili (fino a 3-5 volte) rispetto alle analisi colturali. La metodica NAAT (Nucleic Acid Amplification Test) è infatti molto sensibile (individua già 500 equivalenti genomici-GE), estremamente specifica (>99%) e non risente della degradazione del campione per il trasporto (la conservazione è possibile fino a 4 giorni a temperatura ambiente).

Che tipo di campione viene richiesto?
Oltre che su tampone a secco, è possibile eseguire l’analisi anche su urine, liquido seminale.

Significato diagnostico:
L’esame permette il riconoscimento di infezione da Trichomonas vaginalis.

Il genere Gardnerella deve il nome al ginecologo Gardner che nel 1955 descrisse una forma di vaginite caratterizzata da perdite grigiastre e di odore sgradevole. È un piccolo bacillo e la sola specie nota del genere è Gardnerella vaginalis. Quest’ultima comprende diversi biotipi e vari gruppi antigenici e risulta presente nella flora microbica normale della vagina in circa il 30% delle donne sane. Tale bacillo è associato a vaginiti e può essere anche trasmesso per contagio sessuale. La vaginosi batterica è identificata con un aumento di frequenza e concentrazione di Gardnerella vaginalis, ma anche di Micoplasmi e batteri anaerobi, associati a una riduzione della prevalenza di Lactobacilli.

Patogenesi:
La vaginite causata da questo bacillo produce essudato dall’odore sgradevole di pesce, probabilmente dovuto alla produzione di amine da parte dei batteri associati all’infezione, più che al metabolismo di G. vaginalis. Questo batterio è l’agente patogeno responsabile dell’inizio della vaginosi batterica, associata con complicazioni importanti di salute pubblica quali le nascite fetali pre-termine, l’acquisizione/trasmissione del HIV e delle infezioni sessualmente trasmesse. La controversia continuata riguardante la patogenesi della vaginosi batterica ha condotto ad una mancanza di progresso nella prevenzione e nella gestione di questa infezione. In gravidanza la vaginosi batterica interessa più del 20% delle donne e numerosi studi hanno chiaramente confermato un’importante correlazione con parto pre-termine, corioamniotite, rottura pre-termine delle membrane, aborto tardivo.

Quando fare il test?
Il test viene fatto nel caso in cui il clinico sospetti, sulla base dei sintomi del paziente, un infezione da Gardnerella.

Ricerca molecolare:
Il test viene condotto utilizzando metodiche di biologia molecolare, in quanto più specifiche e dotate di maggiore sensibilità.

Materiale analizzato
DNA estratto da tamponi cervico-vaginali.

Terapia:
La terapia specifica è a base di metronidazolo.

L’Ureaplasma parvum è un mycoplasma del genere Ureaplasma.
L’esame colturale rimane il test di riferimento, ma è complesso e non permette di distinguere le 2 specie di Ureaplasma (U. parvum e U. urealyticum). Attualmente, l’impiego della tecnica della Polymerase Chain Reaction (PCR) consente, in singola seduta, di rilevare i quattro Micoplasmi genitali da soli o in combinazione con altri microrganismi causa di IST.

Campioni biologici su cui è possibile eseguire il test:
Tamponi vaginali, cervicali, liquido seminale.

Informazioni utili:
È bene sottolineare nel referto che un’eventuale terapia deve essere valutata in base ai dati clinici e anamnestici della paziente e al quadro microbiologico dell’apparato genitale nel suo insieme.

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